Il Viaggio di Nozze

di Cristina Ruberto


Quando arriva il momento del “grande si” è immediato il pensiero al viaggio di nozze. 

Molto spesso si scelgono mete da “Mille e una notte”, dispendiose, se non irraggiungibili, mediamente lontane; si anela ad una destinazione che, nell’immaginario comune, ci si potrà permettere una sola volta nella vita, una meta romantica, magari con un mare cristallino, banchetti esotici e cornici ipercurate, se non lussuose. 

Il viaggio di nozze deve essere relax, sogno, un breve momento di vita per rendere la coppia protagonista di una perfezione da ricordare e raccontare. Tradendo ogni prevedibilità, il mio viaggio di nozze fu in Antartide: un viaggio piuttosto irripetibile, fuori dalle mete ordinarie. Cosa ci si può aspettare da due che si sposano a Novembre, il mese dei morti? Partimmo a Febbraio alla volta dell’Argentina. Il viaggio con Aerolineas Argentinas fu spaventoso, dopo un paio di ore sull’aereo non funzionava più nulla, compresi i bagni, il personale di bordo completamente assente: era difficile ricevere anche un bicchiere di acqua. Atterrati a Buenos Aires, ci trascorremmo una notte, il breve tempo necessario per respirare un po’ dell’aria della capitale del tango e di molto altro. 

Ripartimmo in aereo verso Ushuaia, la cosidetta “fine del mondo” ed, a tutti gli effetti, la sensazione è un po’ quella. Ushuaia rassomiglia ad un paese nordico, ma più povero, ha un fascino particolare ed inaspettato, si mangiano granchi enormi ed è la base delle partenze per l’Antartide. L’ organizzazione che si occupava del nostro viaggio era la “Quark” e la nave sulla quale avremmo attraversato il famigerato Stretto di Drake era la Lyubov Orlova, una rompighiaccio da esplorazione scientifica costruita in Yugoslavia nel 1976. Ricordo con precisione il momento in cui giungemmo al porto per imbarcarci: c’era una navona immensa, tutta nuova, una specie di nave da crociera; pensammo, ingenuamente, che l’Orlova fosse quella. Una scossetta adrenalinica percorse la spina dorsale, quando, girando l’angolo, realizzammo che l’Orlova era, al confronto, un mezzuccio semi-arrugginito ed infinitamente più piccolo: su quella “bagnarola” avremmo sfidato il mare più tempestoso del mondo. In merito allo Stretto di Drake mi ero ampiamente documentata: quasi tutte le esperienze che avevo raccolto parlavano di onde altissime e della necessità di avere con sè farmaci contro il mal di mare. I farmaci non mi sono mai piaciuti, perdipiù, non avevo mai patito né temuto il mare in vita mia. Risultato: due giorni trascorsi praticamente orizzontale, nei quali credo di avere ingerito esclusivamente un paio di mele. 

A parte il dato negativo, la vita a bordo della rompighiaccio era organizzata egregiamente ed ogni giorno eravamo invitati a seguire lezioni interessantissime in merito a tutto ciò che avremmo potuto ammirare, di lì a poco, dal vivo. Lo staff era composto da esperti che provenivano da tutto il mondo; per non perdere gli approfondimenti, a volte, mi sdraiavo sul pavimento per non patire la nausea ed il gioco era fatto. Le cabine erano piccole, spoglie e decisamente 80’s, nulla di romantico, anche se non riesco ad immaginare qualcosa di più sentimentale del condividere una avventura simile. Il mare dello stretto di Drake tradisce totalmente l’immaginario che noi mediterranei abbiamo del mare: noi abituati, al massimo, a percorrere la tratta Genova-Sassari sulla Moby Line, noi che, quando c’è il mare grosso, vedi certa gente tutta verde che corre in bagno. Le onde dello Stretto di Drake sono enormi, lunghissime ed altissime: la nave va su su su su...non finisce mai....e poi scende giù giù giù giù che sembra sparire sotto una barriera di acqua. 

E’ improbabile trovare lo Stretto di Drake in forza minore di una forza 4/5, spesso è anche 7/8, ma la nave non viene sbatacchiata come si pensa, proprio perchè le onde sono molto lunghe. Dopo due giorni di viaggio approdammo in Antartide: le acque calme, i ghiacci e gli icebergs maestosi, non raccontabili, opere d’arte galleggianti, sul ponte della Orlova venivi zittito dall’emozione, gli occhi pieni ed increduli: ciò che avevi sempre visto in foto o nei documentari spariva sotto tonnellate di superba bellezza. Il silenzio irreale. Le persone a bordo furono divise in piccoli gruppi e per nazionalità, c’erano le balene, le orche, i leoni marini, le foche, i pinguini, i delfini...i cinesi e gli italiani erano i “Krill”, quelle piccole creature invertebrate che vengono fagocitate da tutti gli altri, compresi i pinguini che, poi, defecano ampiamente sui ghiacci lasciando le inconfondibili quanto maleodoranti striature rosa. Ridemmo molto su questo particolare. 

Le escursioni a terra erano super-organizzate e monitorate, si partiva in piccoli gruppi sui gommoni, si raggiugeva la terra ferma, dove era possibile camminare per brevi tratti segnalati e godersi la fauna ed i paesaggi. Avvicinarsi a più di 5 metri agli animali era severamente proibito, come disturbarli, ma, a volte, mantenere le distanze era davvero complicato: i pinguini sono socievolissimi, alcuni si mettono proprio in mostra, danzano, uno mi prese per mano con il becco, “dai, Ruberto! Vieni che ti presento i miei!”. Chi preferiva poteva fare piccole gite in canoa e veniva preventivamente istruito sulle manovre anti-foca leopardo, ma le escursioni a terra erano di gran lunga più interessanti. La sensazione del freddo fu inaspettata: l’escursione termica permetteva, a volte, di rimanere in t-shirt sul ghiaccio. Il posto più emozionante fu una piccola insenatura tra i ghiacci, soprannominata Baia Paradiso, un posto riparato, rifugio di una enorme quantità di grandi cetacei ed orche: la nave si fermò per qualche ora, ci servirono il pranzo sul ponte, ma il gusto del cibo non lo ricordo, ingerivo come un automa, mentre gli occhi impazzivano. Visitammo anche qualche base antartica, in particolare ricordo la base britannica di Port Lochroy. Pochi studiosi vivevano in spazi angusti largamente condivisi, la temperatura di notte si aggirava intorno ai 4°, la dispensa colma di cibo in scatola. 

Ho respirato la Motivazione e la Passione di queste persone ed ho appreso 
che esiste il “Mal di Antartide”. 

Lo raccontava bene il nostro ornitologo di origini tasmane che, pur avendo famiglia, non riusciva a rimanere lontano dai ghiacci per più di due mesi. Il viaggio di ritorno fu più tranquillo, non patii lo Stretto di Drake, ma forse avevo fatto talmente il pieno di emozioni che non c’era più spazio neppure per il mal di mare. Tornai con 3/4 kg in meno, gli occhi brillanti ed il cuore di chi sa che pareggiare un viaggio così sarebbe stato improbabile. Mi sono chiesta “ma ora che ho visto questo, cosa posso vedere di più?”. 

Non fu, poi, così: tutti i viaggi successivi mi hanno lasciato sempre molto. Probabilmente, la nostra fu una delle ultime spedizioni della Lyubov Orlova in Antartide; era il 2010, nel settembre dello stesso anno l’Orlova fu messa sotto sequestro e nel 2013, per tutta una serie di vicissitudini facilmente consultabili su wikipedia, sparì nel nulla diventando una nave fantasma. Spero in cuor mio che le escursioni turistiche in Antartide rimangano meta di pochi; sarà brutto da pensare perchè la possibilità dovrebbe essere di tutti, ma mi è capitato di sentirmi di troppo in mezzo a quella Perfezione senza Uomo. 

In merito all’Antartide non ho libri o musica da consigliare, basta lei con la sua verginità ed il suo silenzio.